Dall’inizio del 2015 hanno aderito al progetto circa 40 scuole del territorio fiorentino e zone limitrofe. Gli incontri di sensibilizzazione ed “educazione” alla perdita, attivati e richiesti dalle scuole in concomitanza di situazioni di lutto o di gravi malattie di bambini e/o di eventi traumatici (es: morte improvvise di insegnanti), sono stati rivolti sia agli insegnanti (scuola materna, primaria e secondaria) che ai genitori dei rispettivi istituti. Nei tre incontri offerti (incontri di 2 ore ciascuno) oltre a confrontarsi sul tema e sul significato della perdita e quindi su tutto ciò̀ che essa inevitabilmente comporta a più̀ livelli, sono stati accolti dubbi, perplessità̀, paure, difficoltà e bisogni dei partecipanti. Tale lavoro ha fatto emergere, in un’ottica di integrazione e collaborazione tra le varie figure coinvolte, ciascuna con il proprio ruolo e con la propria funzione, quello che rappresenta il difficile ma possibile obiettivo (“Insieme si può̀!”),cioè evitare che la perdita, già̀ destabilizzante di per sé, congeli il fisiologico processo di crescita dei ragazzi, e quindi la possibilità̀ di adattarsi costruttivamente alla nuova condizione anche da parte delle figure che ruotano intorno ai bambini e agli adolescenti. A seguito di tali incontri è stata poi offerta la possibilità̀ di una consulenza psicologica specifica rispetto a situazioni problematiche concrete con l’obiettivo (una volta riconosciuti i bisogni emersi) di promuovere e facilitare l’attivazione di tutte quelle risorse necessarie a: far fronte al momento di crisi e di forte sofferenza emotiva, riuscendo a dare un nome e un senso alle emozioni e all’esperienza vissuta e accogliendo la vita. Affrontare ed elaborare la perdita nel modo più̀ evolutivo possibile coinvolge tutti i sistemi di riferimento che ruotano intorno ai bambini e agli adolescenti. Dall’esperienza fin qui condotta, ancora una volta, è emerso quanto un lavoro di squadra e quindi l’attivazione dell’intera comunità̀ (famiglia, scuola, gruppo classe) grazie ad un lavoro di collaborazione, sostegno e vicinanza emotiva – rappresenti il presupposto principale per affrontare al meglio la perdita, riuscendo a lenire il senso di solitudine, disperazione, rabbia, sfiducia e disorientamento legati alla stessa e con questo la possibilità̀ di riacquisire, anche grazie al ricordo e alla memoria di chi e cosa si è perso, quel senso di sicurezza, di fiducia, appartenenza e continuità̀ del legame necessari per la costruzione e la definizione dell’identità̀ di ciascun individuo. Di una buona crescita. Di una buona vita.
Negli anni, quindi, il progetto BEPPE è stato anche attivato da insegnanti che avevano partecipato ad eventi/progetti formativi inerenti il tema della perdita. Quando si ha a che fare con la perdita o il limite un’onda d’urto si attiva a più livelli inficiando tutte le relazioni in un rimando di identificazioni e proiezioni che non possono essere né trascurate, né negate. La morte di un genitore e/o di un insegnante di un bambino, come la malattia di un compagno vanno inevitabilmente a determinare paure e angosce nell’intero del gruppo classe. “Se è successo a lui/lei può succedere anche a me, come mi comporto con lui? Cosa gli accadrà?” La scuola e gli insegnanti hanno quindi il compito, insieme alla famiglia, di accogliere rabbia, paura, incertezza e tutte i dubbi, le domande e le emozioni che bambini e adolescenti possono manifestare promuovendo una sensibilità, una cura ed un’attenzione particolare intorno al tema della perdita, creando un pensiero e una comunicazione condivisa intorno alla stessa.
È all’interno di questa cornice di riferimento che vi raccontiamo alcune delle esperienze in cui siamo stati coinvolti con il progetto BEPPE. In alcune situazioni siamo stati contattati direttamente da insegnanti e dalla dirigenza scolastica, in altre direttamente da genitori in difficoltà nel gestire la situazione che stavano affrontando.
Maria e ancora molta vita davanti a sé
Era una giornata di inizio autunno, il freddo iniziava a farsi sentire dentro e fuori. La situazione, legata alla pandemia, ci faceva vivere poi in una condizione di sospensione. In una bolla. Lontani dalle abitudini e dalle routine che danno quel senso di normalità, quotidianità. Distanti fisicamente; la possibilità di vedersi di persona non c’era e la paura dell’altro era implicitamente forte. Ognuno era rinchiuso nelle sue “mura” venendo meno la relazione e la sua spontaneità. La collega mi chiama dicendomi che un’insegnante aveva contattato la Fondazione File per avere un aiuto. Chiara era l’insegnante di sostegno di Maria, una bambina di 7 anni affetta ormai da un anno da un tumore che non le dava grosse aspettative di vita. La sua prognosi è infausta e, a questa terribile notizia, si aggiunge una condizione familiare molto complessa. La bambina non aveva il padre, apparteneva a un’altra comunità e aveva un altro fratello con grossi problemi psicofisici. La rete familiare era scarsa e, oltre alla complessità della situazione, percepivo, dal racconto della collega, un gran senso di solitudine e smarrimento. Nonostante la cornice fosse così devastante, come tutte le volte mi dico che si può lavorare anche con l’obiettivo di apportare una sola “briciola” di buono e non esitiamo ad inoltrarci in questi sentieri che appaiono così oscuri e con pazienza, coraggio e rispetto delle diversità ci incamminiamo in quel percorso così difficile e tortuoso, ma anche così meraviglioso, che è la vita. Incontriamo dapprima le insegnanti in una riunione zoom. Tutte appaiono molto provate, bisognose di aiuto e ciascuna di loro ci racconta come stia vivendo la situazione personalmente e come docente e come il gruppo classe, al momento, stia affrontando la situazione. C’è da dire che la pandemia, che ha obbligato gli allievi a “frequentare” a distanza, non ha permesso più di tanto di comprendere la gravità della condizione di Maria. I compagni sanno che Maria non sta bene senza però comprenderne appieno la gravità. A detta delle insegnanti la distanza fa però sentire tutti più soli e disorientati dovendo rinunciare alla condivisione e alla vicinanza, soprattutto quella fisica. Si danno informazioni ma non c’è poi la garanzia di quel contenimento che, invece, i bambini percepiscono come prioritario. Le maestre sono preoccupate per Maria ma anche per i compagni; sono addolorate e dispiaciute che questi bambini debbano fare i conti con un evento così gravoso da gestire emotivamente in un momento della loro vita che non dovrebbe metterli a confronto con la perdita e la finitezza della vita. Le insegnanti vorrebbero proteggerli da tutto questo peso; vivono la condizione come un’ingiustizia e anche loro sono provate dall’idea di doversi “separare” da una allieva che avrebbe dovuto avere ancora tutta la vita davanti a sé. Una bimba curiosa allegra e sempre sorridente. Quello che incombe dal nostro primo contatto è la preoccupazione di comunicare e “gestire” quella che sarà la fine, di prepararsi alla perdita, quasi anticipandola. Accogliamo il bisogno e la tristezza delle docenti ma insieme a loro riflettiamo anche quanta vita ci possa essere ancora per Maria e intorno a Maria. Pur riconoscendo la pesantezza di quello che ci raccontavano, la loro priorità sembrava quella di gestire e controllare la morte per contenere ansie e preoccupazioni, quasi ad anticiparne i tempi. Essendoci accertate del grado di consapevolezza del gruppo classe e di come i bambini riuscissero ad elaborare e a manifestare la loro vicinanza a Maria, lavoriamo sulla necessità di vivere il presente e di procedere per gradi. La paura della morte e dell’incertezza poteva congelare tutto. Ma dove tutto è fermo non c’è vita ed evoluzione. Da tanto tempo i bambini non vedevano la compagna e forse si poteva pensare, nel rispetto delle misure di sicurezza, di creare un ‘occasione in cui manifestare senso di solidarietà e vicinanza a Maria e, in qualche modo, di avere uno scambio diretto con lei. Di poterla rivedere, anche a distanza, se le condizioni di salute della piccola lo avessero permesso, anche per potersi rendere conto meglio delle cose e poterne poi fare i conti su un piano emotivo dando anche a Maria la possibilità di sentirsi altro che” una bambina malata”. Rincontrarla poteva facilitare l’intero gruppo classe, nonostante il dolore e la preoccupazione che i bambini avrebbero potuto sperimentare nel vederla diversa fisicamente e non più capace di relazionarsi a loro come prima. La malattia ha infatti costretto la piccola su una sedia a rotelle ma il poterci rientrare in contatto avrebbe dato a tutti la possibilità di riprendere quel filo di continuità prioritario anche per una successiva fase di elaborazione del lutto. Per comprendere e avere maggiori strumenti per affrontare ciò che la vita così precocemente aveva presentato loro. Ancora però c’era la possibilità di condividere, di costruire ricordi necessari per non interrompere il legame e per non far emergere pensieri e/o fantasie catastrofiche ed angoscianti. Per pensare a un progetto del genere era però necessario che anche il sistema- genitori fosse coinvolto e condividesse lo stesso intento, anche per mostrarsi vicini e solidali alla mamma di Maria superando il senso di imbarazzo che le maestre avevano notato. Comunicando e condividendo questo pensiero piano piano anche i volti delle maestre si erano trasformati, si accennava qualche sorriso e il senso di morte e di tristezza che aveva avvolto i visi sullo schermo del computer, magicamente come la nebbia che si dissolve, stavano pian piano prendendo un’altra forma e colore. Le insegnanti già immaginavano e fantasticavano sulle emozioni e le belle sensazioni che questa iniziativa poteva apportare a tutti e a cosa poter organizzare quindi per quel saluto. Dialogando quasi magicamente sulla morte si è tornati insieme a vivere, a pensare e a progettare riducendo il dolore e la pesantezza. Concludiamo il nostro primo incontro concordando di coinvolgere anche i genitori in questo percorso di sensibilizzazione in modo tale che tutti i sottosistemi condividessero un discorso che accumunava tutti, ciascuno nel proprio ruolo e nella propria funzione.
Abbiamo così avuto modo di incontrarci sempre su zoom per altri quattro incontri con insegnanti e genitori. Oltre ad accogliere, riconoscere e legittimare le preoccupazioni che ruotavano intorno alla situazione di Maria e quindi, quanto e come fosse l’atteggiamento migliore da adottare sia nei confronti dei propri figli che del gruppo classe, insieme abbiamo pensato alla possibilità di creare momenti di vicinanza e condivisione tra i compagni. Nonostante tali occasioni non fossero state più le stesse di prima, permettevano però di stare insieme, di esserci e sentirsi comunque vivi nonostante il limite e questa esperienza avrebbe aiutato i bambini a crescere senza necessariamente negare o far finta di niente. Ai genitori e agli insegnanti abbiamo nuovamente sottolineato l’importanza di essere chiari e onesti con i bambini e mostrarsi aperti e disponibili a rispondere a quelle che avrebbero potuto essere le loro domande in merito a Maria, la malattia e la perdita. I bambini si spaventano quando non sanno e quando sentono che l’adulto manifesta difficoltà a rassicurarli e a contenerli, rischiando così che siano loro a darsi delle risposte e avere pensieri e fantasie angoscianti in merito.
Nel tempo che abbiamo condiviso con le insegnanti e i genitori i bambini hanno rivisto più volte Maria, hanno potuto salutarla, portarle disegni, lettere e coinvolgerla in una festicciola all’aperto e essere partecipi di desideri e iniziative dedicate a Maria. Anche i genitori si sono avvicinati e hanno potuto manifestare coralmente vicinanza e solidarietà alla mamma di Maria facendola sentire meno sola e aprendola alla possibilità di chiedere aiuto qualora ne avesse sentito il bisogno. L’attivazione dell’intera comunità ha fatto sì che anche le insegnanti si sentissero meno appesantite dall’idea di dover gestire da sole la situazione, la vicinanza con i genitori ha rappresentato e rappresenta una condivisione di cura responsabile verso ciascun allievo e per l’intero gruppo classe. Al momento Maria è stazionaria e con genitori e insegnanti siamo rimasti in contatto. Insieme abbiamo concordato che ora si vive la vita e quando emergerà un nuovo bisogno noi saremo vicini a loro e insieme riprenderemo un dialogo che, comunque, ha già una storia tanto da garantire quel senso di continuità prioritario per elaborare al meglio la perdita e la mancanza.
Condividere le emozioni, piangere insieme fa sentire meno la mancanza e apre le porte alla fiducia
È metà luglio, la scuola è finita. È un caldo che toglie fiato ed energie. Ci contattano due insegnanti di una scuola media che erano venute a conoscenza del progetto BEPPE tramite altre colleghe… Anna aveva 12 anni ed era morta da una settimana per leucemia. Tutti i genitori erano stati avvisati. Non si sapeva se fossero poi stati avvisati tutti i figli/ compagni. Solo pochi avevano partecipato al funerale perché tanti ormai erano già partiti per le vacanze estive. Le maestre erano disperate e il solo pensiero di rientrare a settembre e di fare i conti con quel banco vuoto le congelava. Il periodo estivo e l’impossibilita di stare vicini e condividere amplificava il dolore e il disorientamento. Accogliamo e legittimiamo i vissuti delle insegnanti ma, al momento, c’era da stare in quel dolore e non si poteva fare altro. Come insegnanti prioritaria al momento era la vicinanza e il poter mantenere i contatti con la famiglia di Anna che rappresentava ciò che garantiva la continuità del legame con Anna stessa. Con le insegnanti si riflette comunque che potrebbe essere utile inviare anche una e-mail dichiarando la propria disponibilità qualora ne avessero sentito il bisogno durante le vacanze estive. Poteva essere un segnale di vicinanza e presenza, un porgere quella mano che garantisce l’esserci e poi ciascuno avrebbe comunque scelto come e se disporne. Era anche un modo per non far finta di niente e per utilizzare anche questo tempo in modo evolutivo e costruttivo, nonostante la drammaticità della condizione che ciascuno si trovava a vivere. Rimaniamo in contatto con le docenti e la dirigenza concordando poi di fare un intervento a settembre nel gruppo classe per verificare come stessero gli allievi, e come l’intera classe stesse affrontando la situazione oltre che per ricordare la loro compagna Anna. Con l’autorizzazione dei genitori facemmo tre incontri, incontri che ricordiamo ancora con grande emozione e commozione. I ragazzi tra lacrime, sorrisi e tante emozioni ci raccontarono di come, individualmente e come gruppo avevano appreso la notizia. Chi aveva avuto modo di aver avuto contatti fino all’ultimo con Anna riuscì a dare informazioni di cui tutti avevano bisogno per comprendere, per capire. Ognuno nel racconto di e su Anna permetteva di costruire un terreno di conoscenza e vissuti necessario per l’elaborazione, Il sapere e il condividere l’evento che era loro toccato sperimentare e li rassicurava andando a colmare quei “vuoti” che creavano ulteriori ansie e preoccupazioni. Anche il sapere che Anna non aveva sofferto e che se ne era andata dormendo rasserenò molti compagni. Quegli incontri furono l’ennesima conferma che i ragazzi, parlando anche di esperienze personali, hanno bisogno di chiarezza, di verità e, là dove emerge e percepiscono disagio e /o difficoltà a parlare del limite e della morte da parte dell’adulto, sono loro poi i primi ad “ammutolirsi” per proteggerli. A tal proposito ricordo con infinita dolcezza Emanuele che, piangendo, raccontò di quanto si fosse sentito tradito nel non aver avuto la possibilità di salutare il suo amato nonno. I suoi genitori, per proteggerlo dal dolore e dalla sofferenza, pensarono che fosse meglio dirgli che il nonno era partito quando aveva 7 anni e lui, ancora, non si capacitava del fatto che il nonno, con cui aveva un legame speciale, non lo avesse neanche salutato. Era arrabbiato e deluso. Tante volte si era interrogato se avesse avuto dei comportamenti sbagliati. Che non fosse stato un bravo nipote. Si era sentito, a tratti, anche colpevole per non aver ricevuto quel saluto. Solo nel tempo ha scoperto quella terribile bugia. Una bugia e un segreto di cui ancora soffriva e che non gli permetteva, poi, di aver fiducia nelle figure adulte. Si è sentito tradito ed escluso da qualcosa che riguardava profondamente anche lui. Qualcuno aveva deciso per lui qualcosa che lui forse avrebbe potuto gestire ed accettare meglio di quello che gli adulti potessero credere. L’evento di Anna e quegli incontri hanno così permesso di dialogare sulla morte e di comprendere quello di cui gli adolescenti hanno bisogno nel tempo della perdita. Tanti i racconti, i vissuti, le esperienze. Timidamente una compagna racconta del dolore legato alla perdita del suo amato cane, compagno di vita e di giochi “era come il fratello che non avevo” e il non aver saputo la verità fino a pochi anni fa (il cane di Federica non era scappato ma era stato investito da una macchina) ha fatto sì che Federica vivesse nella speranza di ritrovarlo. E poi il racconto e il pianto inconsolabile di Matteo, che racconta in un clima emotivo fatto di verità e di profonda vicinanza e solidarietà un segreto che non era mai riuscito a raccontare in questi anni di scuola “mio padre è in carcere perché ha commesso un reato. Io non l’ho mai detto per vergogna ma a me manca tanto”. Quel gruppo classe aveva bisogno, parlando e ricordando Anna, di parlare di vita più che di morte. Di sé e delle proprie emozioni. Tutti sperimentavano vissuti emotivi intensi di mancanza, di perdita, di paura ma si era creato lo spazio e la fiducia per comunicarselo. Tutti si sentivano però al sicuro dentro a quel cerchio nel sentirsi ascoltati e accolti; quel gruppo era capace di contenere. Di stare nel dolore. Di parlarne. Proprio la perdita di Anna aveva permesso uno scambio così profondo, denso di rispetto e privo di giudizio. Ancora mi vengono i brividi a ripensare all’abbraccio in cui la classe si strinse alla fine dell’ultimo incontro, quasi a “stritolarsi”. Nella vicinanza e nella condivisone era come se quel dolore potesse essere meno acuto. più sopportabile e ognuno si sentisse meno solo. Insieme si può anche se, comunque, la fatica è tanta.
A distanza di anni, ancora a giugno ci troviamo con gli allievi e le insegnanti in occasione della data del compleanno di Anna. Occasione per rivedersi, per riabbracciarsi (i ragazzi ormai sono al 3° anno di liceo) e per ricordare la loro compagna. Negli anni sono stati piantati alberi, si sono fatti rinfreschi, concerti e la tristezza e lo smarrimento iniziale della mancanza e della perdita nel tempo si è così trasformata in vita e continuità. Continuità necessaria per il senso di appartenenza e per la definizione di un’identità integra.
A seguito degli incontri fatti con il gruppo classe e il lavoro con gli insegnanti venne chiesto a File di poter fare un lavoro di sensibilizzazione al tema della perdita coinvolgendo tutti i docenti e i genitori che appartenevano al plesso scolastico. A quegli incontri parteciparono anche i genitori di Anna e fu l’occasione per parlare di perdita, non solo intesa come morte, e come tutti gli adulti di riferimento potessero adoperarsi per costruire un dialogo comune intorno alla stessa. Dialogo necessario per poi affrontarla al meglio con bambini e adolescenti. La perdita fa parte della vita e compito e responsabilità degli adulti è di gestirla nel modo più evolutivo senza negarla né venirne sopraffatti. Quei due incontri rappresentarono l’occasione per ciascuno, nel proprio ruolo, di poter fare una riflessione personale sul tema della perdita, del limite e della morte, scoprendo quanto le esperienze personali incidano sulla capacità di “maneggiare” questi temi e di riuscire a starci in contatto. Ricordo la confessione e le scuse che un insegnante rivolse commossa ai genitori di Anna per non essere stata in grado di mostrare la propria vicinanza emotiva all’intero gruppo classe. In realtà l’insegnante non era riuscita ad accogliere quel dolore, quella sofferenza, la malattia e l’aggravarsi delle condizioni dell’allieva perché lei stessa aveva perso suo figlio che, alla stessa età di Anna, morì per una malattia simile e le identificazioni erano state troppo forti. Mi ricordo il rispetto e la commozione che avvolse l’auditorium al momento di quella dichiarazione. Si parlava di fatica, di limite, di disagio ma, allo stesso tempo, parlandone c’era la certezza di essere comunque accolti e riconosciuti ciascuno per le proprie mancanze, limiti e sofferenze. Alla fine di quel percorso la pesantezza iniziale legata alla perdita si era trasformata in un’occasione per sentirsi più vicini e “leggeri”; questo grazie alla creazione di uno spazio di ascolto e condivisione in cui è stato possibile acquisire la consapevolezza che la perdita appartiene a tutti ed è un tema da cui non si può “fuggire”, se si vuole vivere appieno la vita.
Le maestre che non c'erano più
Io e la collega veniamo contattate dalla dirigente scolastica di una scuola materna in periferia di Firenze. In quella scuola da una settimana due maestre avevano perso la vita a seguito ad un incidente. Le giovani maestre erano state investite. Incontriamo tutto il gruppo delle insegnanti e lo stato di shock ed incredulità ancora dilagava; a tutte sembrava impossibile che le due colleghe non potessero esserci più. Veniamo accolte con una certa resistenza; la percezione è che molte delle insegnanti sperimentassero come un’imposizione la nostra presenza piuttosto che una risorsa. Ci presentiamo e cerchiamo di fare emergere i bisogni che in quel momento potevano sentire di avere. Ad eccezione di due insegnanti che si preoccupavano di come gestire la comunicazione con i piccoli allievi, le altre difendevano la loro scelta nel far finta di niente” perché i bambini erano ancora troppo piccoli e non potevano capire appieno”. In realtà dai racconti delle stesse insegnanti I bambini chiedevano dove fossero le maestre e perché la loro classe fosse stata smantellata e loro stesso smistati nelle altre classi. Le maestre, infatti, rappresentano delle figure di attaccamento importanti e garantiscono il legame necessario per una buona crescita. Ai bambini era stato detto che le maestre erano malate e quindi i bambini si aspettavano un loro rientro. Alcuni dei bambini avevano poi messo in discussione la veridicità di tale comunicazione, avendo sentito parlare i genitori di quello che era realmente accaduto. La situazione era drammatica e il rischio che in quel momento la negazione non permettesse un’adeguata elaborazione della situazione era elevatissimo e avrebbe potuto arrecare veri disagi ai bambini. Quello che non riuscivano a sostenere le maestre emotivamente veniva in realtà proiettato sui bambini sostenendo che, per loro, era meglio non sapere ciò che realmente era accaduto perché li avrebbe traumatizzati. In quel momento non c’era spazio per creare un discorso e un dialogo su quello che rappresentava per loro quella perdita. Per alcune docenti era troppo il dolore e il bisogno di difendersi negando o dando una versione distorta della realtà, mentre altre insegnanti, che cercavano invece di stare più su un piano di realtà e riuscivano a stare più attente ai bisogni dei piccoli venivano tacitate, talvolta persino schernite. Ci rendiamo conto che quel gruppo non era abbastanza coeso nell’affrontare la situazione. e quindi si decide di concentrarsi su quanto i bambini avessero e manifestassero il bisogno di avere informazioni chiare, oneste e sincere per crescere in modo evolutivo. I bambini, non avendo informazioni chiare, avrebbero potuto poi perdere la fiducia verso gli adulti di riferimento. Al momento il nostro compito era quello di accogliere il vissuto delle insegnanti ma, nello stesso tempo, metterle davanti alle loro responsabilità in termini di cura e attenzione dei bisogni dei loro allievi cercando di differenziare i vissuti emotivi e districare il gioco complesso di proiezioni che si era venuto a creare. Quello che può andar bene per un adulto non è detto che lo sia per i bambini e, per questo, è importante di avvicinarsi al loro pensiero.
Uscimmo da quell’incontro un po’ in affanno e preoccupate. Riparlammo con la dirigente per informarla di quello che avevamo riscontrato in quell’incontro e a quelli che potevano essere i rischi per i bambini. Nel viaggio di ritorno, in macchina, con la collega ci confrontammo e l’idea condivisa fu che ancora i tempi del lutto non permettevano un intervento che rispondesse ai bisogni dei bambini. Nella maggior parte delle maestre non c’era lo spazio mentale per pensare ai loro alunni perché troppo afflitte e travolte dal dolore per la perdita delle colleghe. Quella che poteva rappresentare una sconfitta non era altro che il toccare sempre più con mano e con la “pancia” la necessità del rispetto dei tempi per una perdita così traumatica ma, allo stesso tempo, percepivamo di aver “gettato qualche seme” che permettesse di sintonizzarsi con i bisogni dei bambini. Eravamo state chiare nell’esprimere i nostri dubbi, perplessità e preoccupazioni rispetto a come pensassero di voler continuare a gestire la situazione e infatti, dopo una ventina di giorni, fummo ricontattate. Le maestre, a quel punto, erano pronte e consapevoli che quel dolore doveva essere affrontato e condiviso per il bene loro e dei loro allievi e sentirsi più vicine e coese come gruppo era un obiettivo che riconoscevano ora come priorità. Solo insieme si poteva gestire un evento del genere. Anche i genitori dei bambini dovevano essere coinvolti nell’obiettivo di ritornare a vivere essendo onesti con sé stessi e con chi si ha a cuore, offrendo ciascuno il proprio contributo.
Quell’incidente che ci ha fatto tanto soffrire e arrabbiare
Sono i primi di luglio. Una scuola con cui avevamo avuto contatti ci chiede aiuto per un’emergenza. Filippo 16 anni due sere prima era morto in un’incidente in motorino. Le professoresse ci dicono che i ragazzi sono sconvolti e che l’intero gruppo classe ci avrebbe incontrato volentieri. Decidiamo, visto che la scuola era chiusa e le aule inagibili, di incontrare i ragazzi nella sede di FILE. È un giovedì pomeriggio e il caldo e l’afa avvolge tutto e tutti. Oltre alle due professoresse, a piccoli gruppi e in un rispettoso silenzio i ragazzi arrivano a File e si accomodano nel cerchio che avevamo preparato nella stanza delle riunioni della Fondazione: tutti appaiono sconvolti, disperati e affranti. Tanta è la rabbia e la frustrazione che circola nell’aria. I ragazzi hanno voglia di parlare, di comprendere come sia potuto accadere. Alcuni riescono anche ad esprimere apertamente la loro rabbia rispetto alla scarsa attenzione manifestata da Filippo nella guida del motorino “andava forte ed era un po’ imprudente”, attribuendogli una responsabilità. Si parla su quanto sia preziosa la vita e quanto sia importante averne cura. Stare attenti. A fronte di chi mette in discussione il comportamento dell’amico, c’è chi lo difende manifestando un atteggiamento più fatalista rispetto alla vita. “Certe cose capitano e c’è un destino cattivo e avverso con cui non si può combattere ma solo farci i conti”. I compagni, oltre ad aver perso l’amico, un ragazzo sempre allegro e definito un po’ da tutti il leader del gruppo – mostrano nei loro volti e nelle loro parole di aver perso quella leggerezza e quella forza che caratterizza la loro età. L’evento li ha messi in contatto con il limite e con il senso di precarietà. L’unico modo in cui si riesce a riprendere fiato dal dolore è quello di stare vicini, parlare di Filippo. Ricordarlo. Pensare di dargli l’ultimo saluto dedicandogli qualcosa in occasione del funerale. Decidono di dedicargli una canzone. Filippo amava la musica e un pezzo rock era la sua passione e, quindi, pensano alla possibilità di chiedere alla famiglia di aver il permesso di suonargliela e cantargliela oltre a leggergli una lettera. La morte, che spesso ha il potere di congelare, rende attivi i ragazzi in quel giovedì pomeriggio. Vivere per e in ricordo di Filippo è quello che permette oggi di dare un senso alla mancanza e alla perdita. Quell’incontro permette poi, in un clima di fiducia e di intensa solidarietà, di esprimere il dolore anche per altre mancanze, per rimorsi, per non detti aprendosi così la possibilità di un confronto corale che rassicura e solleva un po’ gli animi di tutti i partecipanti, noi comprese. Matteo piangendo racconta il rammarico per non aver fatto in tempo a far pace con l’amico con cui aveva discusso la sera prima. Alessia rassicura Matteo comunicandogli che Filippo non era arrabbiato per il loro diverbio, che non aveva minimamente intaccato il loro legame. “Filippo aveva compreso le tue ragioni e che doveva fare un po’ il duro. Lo sai come era fatto lui!! “. Si parla dell’importanza del tempo, di gestirlo al meglio. Della necessità di vivere il presente. Di evitare di lasciare dei sospesi. La drammaticità della morte di Filippo, oltre al senso di impotenza, frustrazione e rabbia apriva lo spazio per dialogare sulla vita riconoscendone il valore profondo. I ragazzi avevano bisogno di aprirsi, di essere accolti e legittimati nei loro vissuti, Di condividere. Di sentirsi vicini. Vivi e di sentirsi comunque ancora connessi a Filippo ovunque ora fosse e anche le insegnanti furono sollevate da quella condivisione. Nonostante lo strazio per quella perdita riconoscevano ai ragazzi tante risorse. Risorse che davano anche a loro la forza di superare la “separazione” da quell’allievo così speciale; proprio grazie alla continuità e la significatività di tutto quello che nei loro legami e relazioni erano riusciti a costruire in questi anni
Con il gruppo degli amici e delle insegnanti ci siamo rincontrati a due mesi dalla morte di Filippo. La mancanza era più forte da sostenere emotivamente ma il ricordarlo e tenerlo vivo nel presente continuava ad essere il rimedio migliore per elaborare e accettare la sua morte e averne meno paura. Il gruppo stava affrontando in modo evolutivo questa perdita e nonostante li mettesse in contatto con emozioni pesanti ciascuno riusciva a dare il meglio di sé perché si sentivano insieme. Uniti nell’affrontare ciò che fa anche parte della vita.
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